In quale modo la pandemia che ci ha colpito incide sulle aziende e sulla loro gestione?

Cosa devono fare i datori di lavoro per non incorrere in responsabilità penale e amministrativa anche alla luce del D.Lgs 231/2001?

Quali possono essere le conseguenze per il datore di lavoro nel caso in cui un lavoratore sia colpito da contagio Covid-19?

E’ ben noto che la pandemia da Covid-19 ha avuto effetti sconvolgenti su tanti, troppi destini individuali; appena meno noto che ha anche provocato un diluvio normativo a tutti i livelli di produzione dell’ordinamento giuridico, da quello primario, con numerosi decreti legge, a quello secondario, con ancora più numerosi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, fino a quello sub-secondario, con alcune circolari di agenzie governative: ci limiteremo qui a ricordare, fra le tante fonti che si sono sovrapposte e intrecciate, l’art. 42 del D.L 18/2020 – cosiddetto Decreto Cura Italia – e la circolare n. 13 del 3 aprile 2020 dell’Inail.

Questa normazione, recentissima e improvvisa, riguarda il datore di lavoro, e se sì, come?

Non mancano posizioni, anche bene argomentate, secondo le quali il datore di lavoro non sarebbe interessato, o, meglio, non sarebbe interessato più di, o diversamente da, ogni altro soggetto genericamente tenuto ad obbedire alle leggi: questo nella prospettiva che la pandemia costituisca un rischio ubiquitario, diffuso, che non trova la sua fonte nell’attività, di impresa e non, svolta dal datore di lavoro.

Un simile ordine di idee permea interventi autorevoli, come quello della Regione Veneto, (Indicazioni operative per la salute negli ambienti di lavoro non sanitari, versione 9 del 26 marzo 2020), la quale, ad esempio, ha stabilito che le imprese non siano tenute ad aggiornare il DVR (documento di valutazione dei rischi).

E’ però facile obiettare che l’attività del datore di lavoro, se non è la fonte originaria del rischio, cioè del contagio, ne determina almeno il significativo aumento, per il solo fatto che mette più persone a contatto fra loro: e l’aumento del rischio costituisce base sufficiente per l’applicazione delle regole cautelari che stanno al cuore di ogni discorso sulla colpa e fondano, ricorrendone tutte le condizioni, una responsabilità colposa del datore di lavoro tanto penale quanto amministrativa.

Il datore di lavoro, possiamo perciò affermare senza esitazione, è coinvolto in modo differenziato – differenziato, s’intende, dalla generalità dei cittadini – dalla normativa in tema di Covid-19.

A questo punto la riflessione può assumere due aspetti: il primo riguarda la prevenzione, ovvero che cosa debba fare il datore di lavoro per mettersi in regola ed evitare responsabilità, tanto per i delitti colposi di lesione (art. 590 c.p.) e omicidio (art. 589 c.p.), quanto per l’illecito amministrativo ai sensi del D. Lvo 231/2001, con il pesante corredo di sanzioni da questo previste (pensiamo solo a quelle interdittive, compresa l’interdizione dall’esercizio dell’attività ex artt. 9 e 25 septies D. Lvo 231/2000, che per l’impresa può equivalere a una condanna a morte); l’altro aspetto, successivo, riguarda invece quali possono essere le conseguenze se, nonostante tutte le precauzioni, un evento di lesioni o morte si verifica.

Occorre innanzitutto esaminare quali siano le regole cautelari che vengono in gioco, ed è ovvio, perché la colpa consiste nella violazione di una regola cautelare.

Non è certamente questa la sede per approfondire una problematica tanto complessa, ma possiamo notare che si registra una tendenziale coincidenza fra le regole cautelari la cui violazione dà corpo alla, e simmetricamente il cui rispetto esclude la, responsabilità penale delle persone fisiche per i delitti ex art. 589 e 590 c.p. e la responsabilità amministrativa degli enti – per quanto ci riguarda, degli enti datori di lavoro – ai sensi degli artt. 6 e 7 D. Lvo 231/2001.

Si tratta sempre, in definitiva, di regole organizzative, o di modelli di organizzazione, che mirano ad eliminare, e altrimenti a ridurre al minimo, ogni rischio, da una parte assicurando la qualità di macchinari e attrezzature, dall’altra coordinando e armonizzando l’agire dei lavoratori o, più in generale, di chiunque sia coinvolto nel processo produttivo: significativa, quanto al carattere organizzativo delle regole cautelari, la stessa rubrica dell’art. 30 D. Lvo 231/2001, che appunto recita “modelli di organizzazione e gestione”.

E’ della massima importanza sottolineare che le regole cautelari devono preesistere alla condotta perché il datore di lavoro, come il giudice, ne è consumatore e non creatore: la formula può sembrare astratta, ma sta a fondamento dell’intero edificio della colpa e della responsabilità per colpa, e ha determinanti ricadute pratiche.

Che la regola cautelare debba preesistere alla condotta significa soltanto che il datore di lavoro non è tenuto ad inventare strumenti, prassi e modalità operative per impedire il contagio da Covid 19 – cosa, fra l’altro, che mette in estrema difficoltà gli stessi specialisti – ma deve seguire, certamente con il massimo scrupolo, le regole dettate dalle autorità competenti, anzitutto il governo.

La regola cautelare può essere, puramente e semplicemente, di astensione, cioè chiudere l’azienda e non lavorare: se l’attività del datore rientra fra quelle bloccate dai vari DPCM, non c’è altro da fare che incrociare le braccia e aspettare.
Se invece l’attività lavorativa è fra quelle consentite, la regola cautelare assume un contenuto propriamente modale: prescrive come ci si debba comportare, in relazione al rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività considerata.

Il datore deve allora seguire – si è già detto, col massimo scrupolo – le indicazioni reperibili nei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, nelle ordinanze del Ministero della Salute e negli altri atti autorizzati, e, quando lo ha fatto, ha adempiuto il suo debito di sicurezza verso i lavoratori e verso la collettività.

Ricordiamo che l’art. 2087 c.c. – secondo cui l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro – è stato spesso interpretato come fonte di regole cautelari aperte e praticamente senza limiti, nel senso che il datore sarebbe tenuto ad impiegare nella sicurezza la migliore tecnologia esistente, a prescindere da ogni considerazione di costo e di economicità, per il solo fatto che è esistente e quindi, si assume, disponibile.

Proprio la drammatica situazione in cui ci troviamo dimostra quanto letture così totalizzanti dell’art. 2087 c.c., e di altre disposizioni che contengano analoghi riferimenti allo sviluppo della tecnica come misura del debito di sicurezza, siano impercorribili.

Supponiamo – è un esempio fantastico, scelto solo per spiegare meglio il concetto – che in Corea abbiano inventato un macchinario miracoloso, dal costo astronomico, in grado di cancellare ogni minima traccia del virus: è tenuto, il datore di lavoro italiano, a conoscerne l’esistenza, ad acquistarlo e ad impiegarlo a beneficio dei suoi dipendenti?

Certamente no, perché la normativa introdotta al precipuo scopo di fronteggiare l’epidemia – i decreti del Presidente del Consiglio e il resto – quando consentono un’attività e ne dettano la disciplina individuano per ciò stesso il livello di rischio consentito: operano, in altre parole, un bilanciamento fra l’utilità sociale dell’attività, svolta con certe modalità definite, e il rischio che qualcuno possa ammalarsi, e quel bilanciamento, che già comporta una valutazione comparata di costi e benefici, non può essere rimesso in discussione perché esistono, o possono esistere, cautele ulteriori, che qualcuno, a torto o ragione, ritiene più idonee o più efficaci.

E veniamo alla prospettiva non più preventiva, ma successiva: la domanda è che cosa succede nel malaugurato caso che un lavoratore si ammali, ciò che può integrare l’evento del delitto ex art. 590 c.p., o muoia, ciò che può integrare l’evento del delitto ex art. 589 c.p., delitti che a loro volta possono trascinare la responsabilità dell’ente nei termini del D.Lvo 231/2001.

Qui è fondamentale dissipare un equivoco: l’art. 42 del D.L. 18/2020 (Cura Italia) e il suo strumento applicativo, la circolare n. 13 del 3.04.2020 dell’Inail, non preparano nessuna trappola per i datori di lavoro o per le imprese, come pure qualcuno ha mostrato di temere.

L’art. 42 co. 2 del DL 18/2020 assicura che i casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro siano trattati come infortuni, e l’infortunato goda della relativa tutela: niente di più e niente di meno, in particolare, nessuna modifica del regime della responsabilità penale delle persone fisiche e di quella amministrativa degli enti.

E’ impensabile, d’altronde, che una norma dettata in tema di previdenza alteri i caratteri di fondo del processo penale e di quello istituito dal D. Lvo 231/2001 che sul primo si modella, pur con qualche variazione.

Le presunzioni che l’art. 42 co. 2 D.L. 18/2020 stabilisce – o che l’Inail, con la circolare n. 13, ha creduto di leggerci – operano nei rapporti fra lavoratore e istituto assicurativo, nel cui ambito sono con ogni probabilità giuste e ragionevoli, ma non toccano, e nemmeno sfiorano, l’onere della prova, posto integralmente a carico del pubblico ministero, o lo standard probatorio necessario per la condanna, che è, e resta, l’al di là di ogni ragionevole dubbio.

Tenuto fermo, anzi fermissimo, questo punto, i corollari sono persino banali.

Perché, a fronte di un lavoratore ammalato, si possano configurare responsabilità per delitti colposi, ed eventualmente responsabilità amministrativa a carico del datore di lavoro in quanto ente, occorre prima di tutto che sia accertato, rispetto all’evento malattia o morte, il nesso di causalità: occorre cioè che sia accertato, senza nessuna scorciatoia probatoria, che il contagio è avvenuto nell’ambiente di lavoro (consideriamo l’ipotesi normale e centrale, anche se per certe peculiari mansioni potrebbe rilevare anche un contagio avvenuto al di fuori).

Si tratta di una prova quasi diabolica nella maggior parte dei casi, perché il virus, come tutti sanno, può annidarsi dappertutto, e può essere veicolato da ogni tipo di rapporto sociale: non per niente il motivo, ripetuto quasi all’ossessione da autorità e organi di informazione, è stato quello del diradamento dei rapporti sociali.

E’ difficile immaginare che l’ostacolo probatorio possa essere superato, ma non si possono escludere indagini straordinariamente penetranti, o straordinariamente fortunate.

Dimostrato il nesso causale, la discussione si sposta sulle cautele: si dovrà vedere se i soggetti obbligati, individuati dal D. Lvo 81/2001 (ad esempio i datori di lavoro, i preposti eccetera), hanno rispettato, ognuno per la sua competenza, le regole dettate oggi per il contrasto dell’epidemia, oltre a quelle, già esistenti in quanto ricavabili da fonti precedenti laddove siano idonee a prevenire il contagio.

Resta in ogni caso da dimostrare che il rispetto della regola da parte del datore di lavoro avrebbe concretamente impedito quel concreto evento che si è verificato: dimostrazione che, allo stato attuale delle conoscenze sul virus, sulle sue modalità di propagazione e sui suoi effetti patogeni, può rivelarsi irta di difficoltà per l’accusa, quando non destinata al fallimento.

Tanto premesso, è ovvio che saranno sempre opportuni – quand’anche non obbligatori in senso stretto – un adeguamento formale del modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati, una precisa descrizione delle misure adottate per la prevenzione dei rischi connessi all’emergenza da Covid-19, la tracciabilità documentale delle policy aziendali predisposte.

In questo modo il datore di lavoro potrà meglio dar ragione delle scelte effettuate durante l’emergenza e difendersi da ogni eventuale contestazione.