Regna incertezza a proposito degli effetti che le misure di contenimento adottate dal Governo e più in generale la pandemia da Covid 19 hanno e avranno sui contratti in corso.

Il tema in primo piano riguarda gli effetti sui contratti di locazione di immobili commerciali/professionali in corso, oltre che degli studenti fuori sede, ma anche di noleggi ad esempio di flotte aziendali, le cui attività siano state sospese, leasing di godimento correlati ad attività economiche sospese, ristrette o ridotte.

Va subito detto che la possibilità di non pagare il canone per effetto dell’art. 91 del decreto cura italia significa soltanto che il mancato pagamento nel periodo di vigenza delle misure di contenimento non può esser considerato colpevole e dunque non può dar luogo a morosità e/o risoluzione per inadempimento.

La disposizione dunque non esonera dal pagamento del canone, e lo comprova anche il fatto che il legislatore ha previsto quale misura di sostegno per i conduttori commerciali un credito di imposta commisurato al canone dovuto.

Per vero, vi è qualcuno che azzarda che le misure di contenimento costituirebbero un factum principis impeditivo del godimento dell’immobile locato, talchè divenuto impossibile il godimento del bene, il canone non sarebbe dovuto, con liberazione del debitore.
L’argomento è suggestivo ma non coglie nel segno, posto che l’immobile resta nella detenzione del conduttore, il quale non ne viene spossessato, come ad esempio in caso di sequestro penale, ma continua ad occuparlo e dunque il godimento c’è, sia pure con la riduzione della funzionalità.

La fattispecie è generalmente ricondotta all’alveo dell’art. 1467 c.c., a mente del quale nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto.
All’altra parte rimane la possibilità di evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

Gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili sono la declinazione della forza maggiore, clausola, che, in generale, afferisce ad eventi umani o naturali non prevedibili nè contrastabili.
La straordinarietà deve essere oggettivamente tale, cioè deve trattarsi di un evento anomalo, misurabile e quantificabile sulla base di elementi quali la sua intensità e dimensione.
L’imprevedibilità, invece, ha natura soggettiva, in quanto riguarda la capacità conoscitiva e la diligenza della parte contraente.
La valutazione di tale caratteristica deve avvenire, però, in modo totalmente obiettivo, prendendo a modello il comportamento di una persona media, che versi nelle stesse condizioni.
Naturalmente detta valutazione va fatta in funzione del tipo di obbligazione oltre del luogo in cui deve esser adempiuta.
La prova liberatoria, ovvero la prova della forza maggiore sono poste a carico del soggetto debitore della prestazione, ma è da ritenere che le caratteristiche e dimensioni dell’attuale pandemia elideranno l’onere probatorio, in ragione del fatto notorio, per cui straordinarietà ed imprevedibilità della pandemia, almeno per i cittadini, sono sicuramente ravvisabili.

Sotto altro profilo, le disposizioni specifiche in materia di locazione consentono il recesso anticipato per gravi motivi.

Tutto qui? o si continua a pagare l’intero canone, o si risolve il contratto, sperando che il locatore, temendo che il bene rimanga sfitto, proponga la riduzione del canone per riportarlo ad equità ?

E’ evidente che la risposta non soddisfa, visto che nella maggior parte dei casi il debitore onerato ha interesse alla conservazione del contratto, sia pure a diverse condizioni.

Intanto occorre distinguere le misure di contenimento, ovvero la chiusura delle attività, da quelli che saranno gli effetti della crisi economica causata dalla pandemia, ed in primis il calo della domanda di beni e servizi.
Il carattere straordinario ed imprevedibile dell’evento impedente, ovvero la pandemia appare integrato, essendo ovviamente inteso che l’imprevedibilità va riferita al momento della stipulazione del contratto.

Per quanto riguarda il periodo di chiusura delle attività, si è accennato che il canone dovrebbe esser comunque corrisposto in detto periodo, fatto salvo che il ritardato pagamento sarà considerato non imputabile e dunque non costituirà inadempimento a carico del conduttore.

Tuttavia, sarebbe possibile pensare ad un diritto del conduttore di ottenere una riduzione del canone per il ridotto valore della locazione nel periodo di chiusura e sovviene il caso inglese dei coronation cases; in tal caso si farebbe riferimento agli implied terms, ai termini impliciti, ovvero alla presupposizione.
In quel frangente, era stato stipulato un contratto di locazione, a canone elevato, di una stanza, il cui balcone affacciava sulla strada di passaggio del corteo reale per l’incoronazione di re Edoardo VII; i festeggiamenti vennero però rinviati per via della malattia del re ed i giudici, aditi dalle parti, risolsero il contratto, ritenendo implicito che fosse stato stipulato sul presupposto del passaggio del corteo reale sotto il balcone della stanza locata.

Ai tempi nostri: il prezzo della locazione è stato – ovviamente – pattuito ed accettato sul presupposto che l’attività venisse regolarmente esercitata, talchè la circostanza che, ferma l’occupazione dell’immobile, lo stesso non possa esser utilizzato per l’attività prevista, in quanto preclusa dall’autorità, incide sul consenso prestato sul prezzo e consente di avanzare il diritto di ridurlo.

Così lanciato il “sasso” della possibilità di pretendere la riduzione del canone per il tempo del divieto legale di esercizio dell’attività, vediamo gli aspetti, per vero decisamente più rilevanti, della crisi economica conseguente dalla pandemia da Covid 19, al momento in cui le attività commerciali, imprenditoriali, artigianali, professionali etc. potranno riprendere.
Dando per scontato che vi sarà una sostanziale recessione, con crollo della domanda e riduzione di fatturato ed incassi, ogni soggetto economico dovrà rivedere i propri fondamentali per capire “se e come potrà stare ancora in piedi”.

In linea di principio, la risposta sarà che potrà stare in piedi a condizioni diverse, ed in primis riducendo i costi di esercizio, ad esempio se il canone di locazione del proprio capannone artigianale non sarà più 3000 euro ma 1000, se i suoi dipendenti accetteranno un part time o un contratto di solidarietà, se i suoi fornitori ridurranno i prezzi etc.

La domanda è dunque questa: è giuridicamente possibile pretendere la revisione delle condizioni di contratto a seguito di crisi economica?
Di primo acchito, la risposta parrebbe negativa, anche se la questione è di grandissimo rilievo nella pratica contrattuale, soprattutto internazionale, ed in particolare nei Principi Unidroit, oltre che nell’ambito delle operazioni di acquisizione societaria.
Per queste ultime viene di prassi inserita nei contratti la MAC, material adverse change clause o clausola di assenza di effetti sfavorevoli, che è appunto legata ad effetti sfavorevoli accaduti nel periodo intercorrente tra il momento dell’accordo e quello del closing e consente all’acquirente oltre che il diritto di recesso, quello di chiedere la revisione del prezzo.
Tra gli eventi solitamente considerati rilevanti vi è anche la previsione di un factum principis, tale da far crollare la convenienza del business praticato dall’azienda da acquistare.
L’inserimento di questo tipo di clausola si è reso necessario a seguito degli eventi dell’11 settembre e da allora è divenuto irrinunciabile; essa risponde infatti all’esigenza di far fronte ad un quadro di rischiosità crescente legata ad uno scenario internazionale imprevedibilmente e improvvisamente mutevole.
Del pari si possono richiamare le clausole di hardship, che in presenza degli eventi esterni come nelle medesime indicate, dispongono, se l’evento è temporaneo, la sospensione dell’esecuzione del contratto, mentre diversamente sorge per i contraenti l’obbligo di rinegoziare il contratto.
Ovviamente, nella maggior parte dei nostri contratti “ordinari” clausole simili non sono state pattuite, però può esser osservato che esse esprimono in realtà principi generali, quali quello della buona fede e del divieto di abuso del diritto.
Sovvengono, dunque, le disposizioni di cui agli artt. 1175, 1374 e 1375 del codice civile, anche in collegamento con i principi costituzionali di solidarietà economica e sociale.
Ad avviso di chi scrive le disposizioni sopra citate consentono di delineare un diritto del contraente colpito dall’evento sfavorevole di rinegoziare il contratto, e di ottenerne il riequilibrio, anche ricorrendo al giudice, il quale può intervenire anche in senso modificativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto.
A sostegno della tesi possono esser richiamate le ordinanze “gemelle” del 21 ottobre 2013, n. 248, e 26 marzo 2014, n. 77, della Corte Costituzionale, la quale nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità dell’art. 1385 c.c. “là dove non prevede che il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi”, sollevata dal Tribunale di Tivoli, la Corte osserva che il nostro sistema consente già al giudice il potere di sindacare clausole contrattuali ex art. 1418 c.c., sulla base della violazione del dovere inderogabile di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), in combinato disposto con la clausola generale di buona fede, cui attribuisce forza normativa.
Ed allora, si potrebbe configurare un diritto dovere delle parti contraenti a rinegoziare le clausole divenute inique/squilibrate a causa del repentino e profondo mutamento dello scenario economico, al fine di riequilibrare le rispettive positive adattandole appunto al nuovo scenario.